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Recensione di “Manifesto dell’Antimafia”

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Quando ho letto il libro di Nando dalla Chiesa dal titolo “Manifesto dell’Antimafia” ho avvertito una sensazione positiva di conferma rispetto a tanti aspetti teorici e pratici che già nella mia mente poco “istruita” sulla materia erano già presenti, e tante cose nuove che mi hanno aiutato nella migliore comprensione di un fenomeno che, purtroppo, è tutt’altro che “passato”.

Sul tema della “mafia” si sentono cose di ogni genere: dall’articolo ultimo di Fedez (un rapper) che titola “mafia non sei più cool” (facendomi porre la domanda: perché prima la era?), alle miriadi di associazioni più o meno improvvisate che si dicono “contro la mafia”, a politici, giornalisti o intellettuali che ci dicono, come scrive proprio dalla Chiesa, che “la mafia non ha più la coppola” e che “non è più come prima” o che è un fenomeno meramente regionale o superato, ecc…

Ognuno ha evidentemente il diritto di dire ciò che pensa, appare però evidente che questo è vero specie se le cose non si conoscono. Il libro di Nando dalla Chiesa è una rivoluzione in questo senso: l’autore è un professore di sociologia delle organizzazioni all’Università di Milano ed è, si può dire senza troppa piaggeria, il massimo esperto del fenomeno mafioso in Italia. Il libro è anche una critica molto forte e per niente celata a tutti coloro che, direttamente o indirettamente, consapevolmente o non consapevolmente, in buona o cattiva fede, hanno concorso (e tutt’ora lo fanno) a generare confusione e fraintendimenti su un fenomeno drammaticamente ancora presente e sempre meno conosciuto, anche grazie al manipolo di esperti improvvisati che ogni giorno ci viene a parlare di cose che non sa.

I punti che dalla Chiesa identifica come elementi costitutivi e ispiratori di questo manifesto sono quattro: 1) [la lotta alla mafia] non è solo o soprattutto questione di magistrati e forze dell’ordine; 2) non è fenomeno che interessa direttamente solo tre o quattro regioni d’Italia, 3) non consiste solo in un pacifico e indolore processo di educazione alla legalità delle future generazioni; 4) non può esaurirsi nella denuncia per quanto informata e sistematica di malefatte e collusioni.

E mi pare molto chiaro anche lo scopo più generale del lavoro. Scopo che trovo esplicitato in questo passaggio: “il Manifesto porta insomma a sintesi un’eterogenea mole di esperienze di vita per dare al lettore uno schema di riferimento agile e non convenzionale. Utile, si spera, sul piano dell’intelligenza delle cose e dell’orientamento delle condotte civili” (dalla Chiesa, Prefazione, p.X, 2014).

Contenuto del libro 

Il primo capitolo del libro si apre con questa affermazione: “la prima condizione per vincere una guerra è combatterla” (p.3) e nella sua semplicità racchiude il senso complessivo dello sforzo che è necessario compiere per poter davvero affrontare questo fenomeno in modo serio e definitivo.

Quello che l’autore ci dice è che, malgrado la nostra storia particolare, malgrado i tanti casi di violenza e di corruzione riconducibili appunto alla mafia siciliana prima e alla Camorra e la ‘ndrangeheta poi (specie al Nord), vige una generale ignoranza del fenomeno e del “nemico”. Scrive dalla Chiesa (p.3) che “la società italiana non ha affatto la consapevolezza che la guerra è in corso. Non ne afferra la sostanza, le modalità, le vere implicazioni” e c’è da chiedersi perché. Sempre per l’autore sono tre i motivi generali di tale “ignoranza”: 1) insufficienza culturale, che non ha a che vedere con il mero titolo di studio; 2) l’abulia morale, 3) perché non scorge il pericolo, poiché l’Antistato (la Mafia) non le risulta così tanto anti-Stato.

A causa di questo stato delle cose, dalla Chiesa afferma che “la forza della mafia sta fuori dalla mafia” (p.30) poiché essa trae benefici enormi proprio dall’ignoranza e dalla sua ormai evidente “invisibilità”. La battaglia quindi è lungi da essere conclusa.

Questo protrarsi dello scontro è determinato dalla “vittoria delle 3 C” ossia il fatto che il sistema veda costantemente il successo di tre categorie antropologiche che, sempre secondo dalla Chiesa (p.31) sono decisive per la vittoria della mafia: i Complici, i Codardi e i Cretini.

Proprio su quest’ultima categoria mi sembra utile soffermarsi, poiché per le prime due è abbastanza evidente il senso. L’ultima categoria invece è quella ontologicamente più interessante e purtroppo più pericolosa. Dalla Chiesa (p.33) riporta una citazione di un colloquio tra un magistrato romano e Frank Coppola:

“Signor Coppola, che cosa è la Mafia?”

“Signor giudice, tre magistrati vorrebbero oggi diventare Procuratore della Repubblica. Uno è intelligentissimo, il secondo gode dell’appoggio dei partiti di governo, il terzo è un cretino, ma proprio lui otterrà il posto. Questa è la mafia…

E continua dalla Chiesa “il bisogno e la disponibilità di cretini. Qui sta la chiave di tutto, prima ancora che nelle complicità intenzionali o nelle affinità morali. Che in termini sociologici può essere così tematizzata: quale rapporto esiste tra la mafia e l’ampiezza della multiforme comunità dei cretini?”.

Su questo aspetto mi fermo perché non posso riassumere qua il contenuto complessivo del libro, che suggerisco a chiunque, specie a chi si considera esperto in materia senza esserlo, di comprare e leggere.

Considerazioni conclusive

Il senso generale del libro, per lo meno dalla mia interpretazione, è che la mafia così come le associazioni criminose in senso più ampio, può essere sconfitta solo se la società civile, il cerchio esterno delle relazioni (p.42), si trasforma radicalmente nelle sue condotte civili e nel suo modo di concepire la realtà. Quella palude di comportamenti irresponsabili, dannosi, furbi e sempre al limite del lecito, sono l’humus perfetto per far attecchire il seme mafioso e sostenerlo nel suo sviluppo.

Quello che serve è appunto una cultura della legalità che trasformi radicalmente la società italiana. Questo deve avvenire da noi, una trasformazione bottom-up. Per cui io stesso devo essere il primo a rispettare le regole, a non essere utile idiota e cretino al servizio (a mia insaputa) delle trame criminose altrui. Questo significa essere nella società, partecipare attivamente e positivamente al cambiamento complessivo dell’intero sistema.

In senso molto più generale, ampio, mi viene da dire che la Mafia può essere sconfitta solo quando il valore della Legalità viene riconosciuto in primis da ciascun cittadino italiano, quando vengono sostenuti e premiati soggetti onorabili, degni, corretti nelle istituzioni e subito condannati quelli che sbagliano, anche il minimo errore. Il familismo amorale, quello che cito incessantemente e che anche dalla Chiesa cita nel suo libro, è il nostro grosso problema. Non è il solo, per carità. Ma una cultura civica più progredita e sensibile al senso di legalità, giustizia e rispetto delle regole, può solo essere un passo avanti verso la distruzione di quelle sacche criminali che ancora oggi sono associate, culturalmente ancor prima che fattivamente, al nostro essere italiani.

Buona lettura!

Recensione di “Diario di una vecchia checca”

Diario di una vecchia checcaQuando mi è stato presentato il titolo di questo libro ho sorriso ed ho pensato: che bello iniziare un libro sorridendo. Mi sono detto: “chissà cosa ci trovo scritto in un diario di una vecchia checca“. La mia curiosità è stata appagata e vorrei condividere con voi qualche riflessione e iniziare questa “recensione anomala” parlando del titolo del libro, perché c’è tutto ciò che ci serve per aprire una discussione.

Prima di tutto è un “diario”, e come confermatomi dall’autore, il suo contenuto è tutto reale, dunque è “biografico”. In secondo luogo, l’uso di stereotipi: “vecchia checca” è un riferimento sfrontato e ironico, ma può avere anche una connotazione offensiva e sovente lo si usa per definire qualcuno che è “sgradevole” o “fastidioso”. In questo caso, e questa è una mia personale impressione, l’uso dello stereotipo ha una funzione apotropaica.

Diario di una vecchia checca” è un diario intimo perché l’autore, Nino Spirlì, racconta in questo libro la sua vita familiare, sentimentale e sessuale, e lo fa con disarmante onestà.

Molti dei fatti raccontati lasciano di stucco, ci vuole quindi un approccio diverso nel leggere questo testo: non è un saggio né un manuale, è la narrazione di una vita e dunque occorre essere consapevoli che vi confronterete con posizioni e stili di vita che potrebbero non appartenervi, potreste scontrarvi con il vostro senso di “pudore” nel leggere di esperienze amorose e sessuali insolite e che forse, dico forse, non pensavate nemmeno plausibili.

Quando si legge un libro ci confrontiamo con il pensiero dell’autore, ma a ogni concetto il lettore attribuisce un suo significato, costruisce su questa narrazione una sua posizione che spesso è altro da ciò che l’autore aveva in mente. Mi sono chiesto: è la stessa cosa con un Diario?

Ho letto tutto d’un fiato questo racconto di vita vissuta, ma mi sono dovuto costringere ad un approccio diverso. Ho letto un po’ l’introduzione e poi la curiosità mi ha spinto a cercare tra le pagine la data del mio compleanno: ero curioso di vedere cosa era accaduto, se nella narrazione c’era un riferimento e surprise : c’era!

Così ho letto quel pezzetto, ma mi sono dovuto fermare. L’evento descritto era forte e la sensazione che ho avuto è stata di avere fatto “violenza” alla storia di questa persona, così sono tornato indietro e ho deciso di entrare in punta di piedi, malgrado avessi già fatto un ingresso in stile elefante in cristalleria.

Il bello del leggere un diario come questo è che attraversi la vita dell’autore e partecipi alle sue gioie, alle sue delusioni e alla sue sofferenze. Dalla narrazione emerge la storia di un uomo come tanti e non è insolito, gay o non gay, riconoscersi in certe esperienze e certe emozioni: sono eventi che ci accomunano tutti, ci sono esperienze ed emozioni che ci appartengono a prescindere dall’orientamento sessuale di ciascuno e questo è un bell’esempio di come andare oltre allo stereotipo e al senso di “diversità”.

Il libro di Nino Spirlì è una lettura piacevole che mette a nudo la vita di una persona e quella dei suoi affetti più cari, che condivide esperienze anche dolorose con il mondo. C’è del coraggio nel mettersi a nudo in questo modo, certamente è anche l’esito di una vita vissuta consapevolmente, senza ambiguità e maschere. Da questo testo traspare anche un aspetto che Mimosa Martini, nella prefazione, definisce “filosofico“.

L’autore è alla continua e affannata ricerca di un quid , una ricerca che passa attraverso la sperimentazione sentimentale e sessuale, lavorativa e familiare, che si scontra con eventi duri della vita, come il lutto di una persona cara o il tradimento. La ricerca è sempre parzialmente compiuta, il libro non è quindi un resoconto di un’esperienza completata, ma un momento di autoriflessione, di discorso su se stessi, che è solo un altro passaggio della vita, un nuovo punto di partenza, non d’arrivo.

Incontrerò Nino Spirli a Berlino, presso Mondolibro, per presentare insieme questo libro il 13 maggio. Sarà un piacere!

American Horror Story – Asylum

Questo post è dedicato a una serie televisiva che ho visto da poco: American Horror Story – Asylum – se non avete ancora guardato la serie non leggete oltre, altrimenti vi rovinate la sorpresa.

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Il nome della seconda stagione della serie ideata e diretta da Ryan Murphy e Brad Falchuk rimanda ad un opera molto importante nell’ambito delle scienze sociali, Asylum, per l’appunto, scritto da Edwing Goffman nel 1961.

L’opera di Goffman è una pietra miliare della sociologia contemporanea. Il sociologo canadese ha offerto importanti contributi alla teoria sociale, specie in ambito dell’interazionismo simbolico e della fenomenologia. Il libro Asylum  rappresenta qualche cosa di più di un testo sociologico. Come ha scritto Alessandro Dal Lago, in una prefazione:  “ci sono libri che trascendono il proprio ambito disciplinare e contrassegnano una tendenza, se non un’epoca, della cultura” e questo è il caso di Asylum. Il titolo di questo secondo capitolo della serie American Horror Story, attinge dunque da ciò che l’opera di Goffman ha prodotto nella cultura generale.

La narrazione si svolge su più piani temporali, anche intrecciati tra loro: passato, presente e futuro. La dimensione della malattia consente di dare una rappresentazione della realtà alterata, fuori dal tempo se vogliamo. Si uniscono poi elementi esoterici e mistici: le vicende dei malati psichiatrici si intrecciano a storie d’alieni, di diavoli e di visioni. Il tutto, ovviamente, ridotto a pura manifestazione della pazzia del soggetto. La pazzia, la reazione della società a tale deviazione, le istituzioni totali di cui parla Goffman, sono rappresentate dal carcere e dal manicomio. In questo telefilm, il manicomio è gestito, come usava un tempo, da suore e religiosi. Così, alla scienza si affianca la fede, alla terapia di una psicosi un esorcismo (che finisce anche male).

Il cast è d’eccezione. Gli attori sono per lo più della prima serie di American Horror Story, che era dedicato alla “disgregazione sociale” della famiglia: tradimenti, fantasmi (quelli della propria coscienza) e illusioni (dei vivi e dei morti). I personaggi principali sono  Suor Jude, (Jessica Lange), la rigida direttrice del manicomio, che dopo una vita dissoluta abbraccia la fede come percorso di redenzione e “punizione”. american-horror-story-asylum-jessica-lange Suor Mary Eunice, (Lily Rabe), l’innocenza e la purezza corrotta dal demonio: una trasposizione perfetta delle nostre più profonde oscurità. Monsignor Timothy Howard, interpretato da Joseph Fiennes, è la figura della degenerazione della fede: mette da parte la carità per il suo personale tornaconto, e ancor più grave,  mente a se stesso: si dice che il male fatto è in virtù di un bene superiore, quante volte capita nella realtà? La sua fine è eclatante.

Al gruppo di religiosi, che rappresenta in qualche modo la “degenerazione della carità“, si contrappone quello dei medici, gli scienziati.

C’è il Dr. Arthur Arden, interpretato da James Cromwell, un sadico con manie di onnipotenza. La storia lo smaschera, è un ex-ufficiale delle SS, il monsignore lo difende e lo copre. Le scene che lo interessano sono tra le più cruente e dure: gli esperimenti umani che svolge sono aberranti. Il suo personaggio è anche quello protagonista di un atto di dissacrazione terribile: la scena lo ritrae mentre “trucca” la statua della Madanonna e la offende gridando, per poi distruggerla. Fede o non fede, la scena colpisce. La scena più terribile, comunque, coinvolge una delle pazienti, che viene catturata dal dottore. C’è un tentativo di stupro, quindi un ulteriore elemento di “disumanizzazione” a cui segue una mutilazione delle gambe (affinché non fugga). L’esperimento folle consiste nell’iniettare il batterio della tubercolosi per creare una sorta di immunità e alterazione genetica: il corpo della povera malcapitata si deforma, e acquista le sembianze di un mostro. La sua storia è forse la più tragica. L’alter-ego del Dott. Arden è il progressista e innovatore, Dr. Oliver Thredson, interpretato da Zachary Quinto. E’ la rappresentazione perfetta dell’ambiguità e della depravazione umana: essere altro da sé, a tal punto da essere salvatore e carnefice, sadico e spietato, ingannatore e pianificatore, un serial killer psicopatico che ha coscienza di sé e agisce consapevolmente nel male.

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Poi c’è Lana Winters, interpretata da Sarah Paulson, la giornalista in cerca di fama, lesbica che (così come andava di moda all’epoca) subisce la punizione da parte di Suor Jude e viene internata, per subire un trattamento correttivo: l’elettroshock e una cura repressiva per la sua “perversione sessuale“. Si vedrà che il protagonista è alla fine lei, da lei tutto inizia e con lei tutto finisce. La sua vicenda si intreccia con le storie di tutti gli altri personaggi e in particolar modo con Thredson e Suor Jude. Infine, ci sono Kit Walker, interpretato da Evan Peters, l’innocente che viene accusato dei crimini che non ha commesso, legato al futuro e all’inspiegabile. La sua storia personale si intreccia con la narrazione della vita aliena. La sua figura è quella che, tra le altre, subisce le maggiori angherie: condannato per qualche cosa che non ha commesso, è indotto da medici e religiosi a credersi colpevole.

La crudeltà umana spaventa più dell’arrivo del diavolo e degli alieni. Le atrocità che vengono commesse da alcuni dei personaggi è sconvolgente:  ex nazisti che proseguono con i loro piani abominevoli di sperimentazione umana su persone, appunto, abbandonate, considerate “non umane” e dunque “non meritevoli di rispetto” in virtù proprio della loro malattia psichica. Lo dice chiaramente il personaggio: “chi li piangerà?” e “la loro vita è inutile, mentre ciò che faccio può aiutare gli altri” ossia i sani. Nella follia lucida di questo personaggio, il dott. Arden, si legge l’esagerazione, la deriva assolutista della scienza: sostituirsi a Dio, trovare la via dell’eternità. Poi, i piani falliscono, cadono i castelli in aria e ciò che resta è disperazione.

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L’istituzione totale rende pazzi: puoi essere sano, ma la routine, il ripetersi incessante delle cose, lo scandire sempre identico del tempo e delle cose da fare, conducono alla pazzia e il motivetto che accompagna in questo percorso di disumanizzazione è una musichetta allegra, Dominique”, un successo degli anni Sessanta di una suora belga (Suor Sorriso). I malati sono costretti ad ascoltare questo motivetto che parla dell’opera buona di San Domenico e della sua fede pura e forte. Un’ideale di perfezione a cui tendere, ma che è irrealizzabile e rende tutto ancora più frustrante e alienante.

Le storie personali dei personaggi si intrecciano e si sovrappongono: i buoni diventano cattivi e viceversa. Chi sembrava cattivo in realtà era buono, chi era un salvatore era in realtà un carnefice. Ci sono intrecci così articolati che lo spettatore resta confuso: l’effetto è davvero unico. l risultato di questo lavoro è un mix perfetto di ansie e angosce, di aspettative e delusioni, di confronto con ciò che realmente è “orrore”. Non è la rappresentazione del soprannaturale che colpisce, non è questo l’aspetto realmente horror, ma le nefandezze umane, gli orrori di cui gli esseri umani sono capaci e colpevoli. E, soprattutto, non è il malato, lo psicopatico, il mostro, ma chi gli sta attorno: colui che doveva essere sano, è in realtà malato, colui che è insano è in realtà innocente. In questo caso è la figura di Pepper ad affermarlo: “sono un mostro” dice e nessuno ha avuto dubbi sulla sua colpevolezza, un mostro nell’aspetto fisico doveva esserlo anche nel profondo dell’anima.

Una serie davvero bene fatta, merito di una sceneggiatura perfetta, di musiche azzeccate, di una narrazione coinvolgente e di un cast di attori molto bravi. Ma il tema, è questo che rapisce, e la sua perfetta rappresentazione.

Recensione “Specchio delle Sue brame.Semiotica e analisi socio-politica delle pubblicità: genere, classe, razza, età ed eterosessismo”: pubblicità, potere e stereotipi.

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La pubblicità è stata oggetto di numerosi studi di carattere sociologico, economico, psicologico e antropologico. Tuttavia, lo sguardo d’analisi critica si è discostato dall’ambito accademico, specialmente negli studi sociologici, per concentrarsi su analisi commerciali, economiche e poco attente al ruolo “politico” della pubblicità. Spesso, testi con analisi critiche, sono stati realizzati nell’ambito del giornalismo d’inchiesta (parliamo dell’Italia) come il lavoro di Lorella Zanardo (2010) sul “corpo delle donne” o la triologia di Loredana Lipperini, “Ancora dalla parte delle bambine” (2007); “Non è un paese per vecchie” (2010); “Di mamma ce n’è più d’una” (2013).

Interessante, e illuminante, è stata la lettura del testo a cura di Laura Corradi  – “Specchio delle sue brame. Semiotica e analisi socio-politica delle pubblicità: genere, classe, razza, età ed eterosessismo”. Il testo unisce i contributi della teoria femminista e degli studi di genere, con una più ampia analisi del ruolo della pubblicità come “dispositivo” politico e pedagogico, capace, non solo di creare profitti (l’anima del commercio), ma anche come strumento del potere dei media di “modellare la natura della consapevolezza sociale e la natura dell’opinione pubblica” (McGullagh, 2002:151).

Pubblicità, consumismo e potere

Con la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, e con il progressivo diffondersi della società dei consumi e dei consumatori (Bauman, 2008), la pubblicità è diventata uno dei dispositivi di “coercizione” e di “rieducazione sociale” per eccellenza. Nel contesto del capitalismo moderno, le pubblicità sono divenute “espressione di un meta-desiderio”, esse non riflettono “i nostri sogni più intimi, li costruiscono. Le pubblicità manifestano ciò che la struttura sociale ed economica desidera, e desidera che noi desideriamo, per la propria sopravvivenza, non per la nostra felicità” (Corradi, 2012:25). Attraverso la pubblicità si è andato diffondendo il mito del consumo: non si acquista più, in effetti, sulla base della necessità (almeno nel ricco occidente), bensì sulla spinta del bisogno stesso di consumare: “consumo, dunque sono”, titola uno dei testi del sociologo polacco Zygmunt Bauman. Per questo non si può non concordare, a mio avviso, con quanto affermato da Bauman (2005), quando racconta del ruolo sempre più importante degli “scarti”: il consumo fine a se stesso ha prodotto un mondo pieno di scarti, rifiuti. Nella sua visione critica e forse un po’ apocalittica, anche la vita umana è diventata totalmente merce di consumo, e in effetti, considerando come i corpi sono usati essi stessi nelle pubblicità, per commercializzare prodotti, è difficile dargli torto.

Nel testo di Corradi, l’aspetto “consumistico” della pubblicità è affiancato a quello politico. Ho trovato l’accostamento importante e originale, perché ha messo in evidenza un qualche cosa che, purtroppo, sembra essere sfuggito, almeno negli ultimi tempi, allo sguardo critico della sociologia (almeno quella di casa nostra). Mentre gli studi in ambito anglosassone sono molto sviluppati, ricchi e critici; in ambito italiano la sociologia non è andata molto oltre la teoria femminista. Manca, a mio avviso, la capacità di guardare all’insieme, considerare i particolari per costruire il mosaico.

La pubblicità, in modo più marcato attraverso gli stereotipi di genere, ripropone disuguaglianze, le giustifica e le legittima agli occhi dei “membri ordinari della società” (Berger & Luckmann, 1966). Il ruolo della pubblicità è pro-attivo rispetto alla creazione di stereotipi e alla loro cristallizzazione, e in questo senso è necessario osservare, analizzare e riflettere il ruolo politico delle pubblicità, specie in un contesto come quello odierno dove ai vecchi media si sono affiancati i nuovi, caratterizzati da un’elevata velocità di trasmissione delle informazioni, una maggiore capacità diffusiva e maggiore economicità degli interventi, così che la pubblicità non solo diventa più invasiva, ma anche “globalizzata”. Le pubblicità diventano nuovi modi di intendere il potere, specie quando possono rappresentare un modo per plasmare gli usi e i costumi di altre popolazioni, magari imponendo il modello capitalistico di consumo occidentale, anche in contesti apparentemente estranei (nel testo di Corradi si parla, per esempio dell’India, ma pensiamo anche alla Cina e ai paesi del sud est asiatico, e così via).

Genere e potere

Il testo di Corradi non è da intendersi, a mio avviso, come un libro sulle questioni di genere, quanto piuttosto un testo che analizza il ruolo politico della pubblicità attraverso la categoria interpretativa del genere (tra le altre). Con “politico” non dobbiamo intendere qua i meccanismi elettivi, i sistemi partitici o le intenzioni di voto, bensì la capacità della pubblicità di influenzare l’opinione pubblica, di modellare il pensiero e i sistemi di credenze, infine la capacità di interferire con la nostra consapevolezza sociale, modificando la percezione stessa della realtà, attraverso stereotipi di genere, di razza, di sesso, di orientamento sessuale e via dicendo.

In tal senso, la pubblicità è più che un mero strumento per fare profitto o un modo di intendere il capitalismo. La pubblicità diventa dispositivo di “coercizione sociale” e di “propaganda ideologica”, che sfrutta, tra le altre, la dimensione del genere per ripresentare stereotipi e disuguaglianze. Analizzare la pubblicità come una ideologia (Corradi, 2012:35) significa assumere che la pubblicità ha un ruolo attivo nei processi di legittimazione delle disparità sociali e dunque è interessante, proprio per la sociologia, osservare in che modo “cambiano le società in termini di potere e come vengono ridisegnati, anche a livello simbolico, i rapporti sociali fra le classi, i generi, le appartenenze etniche, le generazioni, e le dimensioni identitarie fondate sulla sessualità” (ibidem).

Presentare questo testo come un “altro studio sulle questioni di genere”, è riduttivo. Il testo contiene contributi di vari autori dedicati allo studio delle diseguaglianze di classe (Chiodo e Corradi), di razza (Perilli), per orientamento sessuale (Baldocchi e Tiano), sulle generazioni (Corradi). L’analisi socio-politica, come dice il sottotitolo è trasversale alle varie dimensioni del vivere sociale. Il punto di vista privilegiato, mi sento di dire, è quello del “gender”, poiché con questa categoria, da tempo, si è riusciti ad individuare sistemi di disuguaglianze creatisi e riprodottisi sui differenziali di potere tra uomo/donna in primis e tra eterosessualità/omosessualità poi. Come aveva scritto già Scott (1986:333) “il genere è un elemento costitutivo delle relazioni fondate su una cosciente differenza tra i sessi, e il genere è un fattore primario del manifestarsi dei rapporti di potere”. Tali rapporti si sono riprodotti in ogni aspetto del vivere, e con la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, tali rapporti si sono riversati nel “virtuale”. Si pensi alle pubblicità commerciali degli anni cinquanta e sessanta, dove la donna era rappresentata come casalinga e dunque target delle intenzioni commerciali delle imprese d’elettrodomestici, per esempio. Non solo la pubblicità aveva preso in prestito uno stereotipo sul femminile, ma lo aveva amplificato e riproposto in forme sempre nuove, così da oltre sessant’anni abbiamo la candeggina pubblicizzata da una simpatica nonna, una pasta fumante servita ai figli e al marito a tavola dalla moglie servizievole e così via.

Ecco, allora è proprio vero, come scrive Corradi, che “le pubblicità sono uno specchio” attraverso cui possiamo osservare e comprendere la società e le sue trasformazioni. Sfruttando le immagini (assieme a colori e musica), le pubblicità trasmettono saperi preconfezionati sulla vita e hanno uno scopo anche (o soprattutto) normativo: ecco come dovrebbe essere questo, quello e quest’altro. Prendiamo per esempio la pubblicità della Mulino Bianco. Nel linguaggio comune è facile sentir parlare della “famiglia mulino bianco”, ossia quella rappresentazione (icona, per usare un concetto di McLuhan, citato da Corradi, 2012:27) standardizzata di famiglia eterosessuale, occidentale e di estrazione borghese, che è felice e perfetta. La famiglia Mulino Bianco è diventata un modello di riferimento nell’immaginario collettivo italiano, e proprio in queste ore, il Presidente Guido Barilla, intervistato alla trasmissione radiofonica La Zanzara, ha fatto una dichiarazione per alcuni forte contro gli omosessuali: “Non farei mai uno spot con una famiglia omosessuale. Non per mancanza di rispetto ma perché non la penso come loro, la nostra è una famiglia classica dove la donna ha un ruolo fondamentale. Noi abbiamo un concetto differente rispetto alla famiglia gay. Per noi il concetto di famiglia sacrale rimane un valore fondamentale dell’azienda”. È chiaro, alla luce di quanto affermato e su quanto affermato nel libro da Corradi, come la pubblicità sia fondamentale per poter rappresentare lo status quo, certo, ma anche per conservarlo, sfruttando proprio stereotipi e visioni cristallizzate del mondo, nello specifico poi la donna, che ancora una volta ha il suo ruolo fondamentale nella madre/moglie, sempre “al servizio di”.

Ma c’è anche un altro aspetto della mercificazione del corpo femminile negli spot. Infatti, quasi ovunque, il corpo della donna è usato, in pose più o meno sexy, per pubblicizzare ogni genere di prodotto “maschile”: dalle moto alle auto da corsa (anche questo uno stereotipo, perché mai una donna non dovrebbe amare una moto o un auto da corsa senza essere etichettata come una lesbica, per esempio?), dal rasoio alle sigarette. Attraverso la rappresentazione del corpo femminile nelle pubblicità destinate ai “maschi”, si è andato riproponendo uno specifico ideale di “maschilità” e di conseguenza di “femminilità” (che è contraddittorio, poiché si passa dalla madre e cuoca amorevole in casa, l’angelo del focolare, alla sexy signorina in pantaloni di pelle stesa su una moto; sacro e profano).

Questo sistema di disuguaglianze legittimate attraverso le pubblicità, ha un chiaro stampo “patriarcale”, dove l’uomo è la figura di rilievo, dominante e a cui la società guarda. La maschilità è contrapposta alla femminilità, e la femminilità è rappresentata e usata per le “brame” del maschio. Per questo la maggior parte delle pubblicità gioca sugli stereotipi di genere e hanno uno sfondo “sessuale”, perché viene solleticata la natura “primordiale” del maschio e gli viene ricordato che essere maschio è soprattutto non essere femmina.

Nuove prospettive per una critica sociologica

Del testo curato da Laura Corradi, ho apprezzato l’approccio non segmentario, non iper-selettivo e non iper-specializzato, tipico del destino delle moderne scienze sociali (nell’illusione, sempre mia idea, di potersi avvicinare alla comprensione totale e oggettiva di un fenomeno sezionandolo fino al più microscopico aspetto, come una cellula in laboratorio, dimenticandosi del conteso e dell’ampiezza del mondo sociale e delle influenze che esso esercita sul fenomeno oggetto di studio). Per questo il libro è interessante, originale e capace di descrivere un fenomeno in modo, a mio avviso, più esaustivo che non altri lavori.

Troppo spesso lo studio delle disuguaglianze di genere è ristretto all’ambito degli studi femministi. Tutto ruota attorno alla “donna” e spesso, come aveva osservato Saraceno (2007) la debolezza di questi approcci è che chi parla di donne è sempre e solo un’altra donna. Difficile, infatti, come mi è stato rimproverato anche da alcuni iscritti al blog di sociologia che ho creato e gestisco, generare interesse su temi come questi, quando a occuparsene sono solo le donne, che scrivono, riflettono e parlano essenzialmente ad altre donne.

Eppure, la questione sollevata in questo libro, per me davvero interessante, andrebbe approfondita e discussa soprattutto con gli uomini. Le questioni di genere riguardano sia donne che uomini, è un errore continuare a credere che tutto ciò possa interessare o riguardare solo le donne. Oltre a quest’aspetto conoscitivo, interessante è l’approccio, la metodologia: uno studio intersezionale (Corradi, 2012:44) che spiega come “classe, genere, razza, età ed orientamento sessuale possono essere analizzate come categorie oppressive interconnesse, poiché vitalmente interconnesso è il sistema patriarcale, capitalista, razzista ed eterosessista”.

Vorrei concludere questa breve recensione, osservando che in questo testo c’è una “velata” critica al ruolo della sociologia, “colpevole” (dico io) di essersi progressivamente allontanata dal suo ruolo di scienza critica della società. Di questo abbiamo discusso assieme alla prof.ssa Laura Balbo, in occasione di un incontro: la sociologia è sempre più esclusa (oppure auto-esclusa?) dalla dimensione pubblica e dunque meno capace di comprendere la società e le sue trasformazioni. Si nota l’assenza della sociologia dal discorso pubblico: la società muta e la sociologia sembra sempre più distante e incapace di offrire analisi soddisfacenti.

Il testo di Laura Corradi può essere un interessante punto di partenza, un invito alla sociologia a riscoprire se stessa. Lo fa con un tema classico della sociologia, ossia lo studio delle disuguaglianze e le relazioni di potere all’interno della società. Propone un modo differente di osservare la pubblicità e invita a indagare a fondo il suo risvolto politico e ideologico. E personalmente vorrei che tale sforzo fosse compiuto insieme agli uomini, perché questi sono argomenti e temi che riguardano tutti noi.

Riferimenti

Bauman Z., (2005) Vite di Scarto, editori Laterza, Roma-Bari

Bauman Z., (2008) Consumo dunque sono, editori Laterza, Roma-Bari.

Berger&Luckmann (1968) La realtà come costruzione sociale, Il mulino, Bologna.

Corradi L., (2012) (a cura di) Specchio delle sue brame. Analisi socio-politica delle pubblicità: genere, classe, razza, età ed eterosessismo., edizioni ediesse, Roma.

McGullagh C., (2002) Media Power: a sociological introduction, Palgrave Macmillanm Houndmillsm Basingstoke, Hampshire.

McLuhan M., (1967) Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano.

Saraceno C., (2007) Genere, età e generazioni nel fare sociologia, in Leccardi C., (a cura di) Tra i generi. Rileggendo le differenze di genere, di generazione e di orientamento sessuale, Guerini Studio, Torino.

Scott W.J., (1986) Gender: an usefull category for women’s History, in American Historical Review, vol.91, 5, 1986.

 

Recensione de “L’abominevole diritto, Gay e Lesbiche, Giudici e Legislatori”

Questo post è dedicato al libro di Matteo M. Winkler e Gabriele Strazio dal titolo L’abominevole diritto. Gay e Lesbiche, Giudici e Legislatori, con prefazione di Stefano Rodotà, edito da “Il Saggiatore”.  La recensione con il commento risale al 2011 ed è presa dall’altro mio blog: unarabafenice.blogspot.de 

Questo libro è come scrive Rodotà importante, perché non parla solo di omosessualità, quanto piuttosto, di “eguaglianza“. La questione dell’omosessualità in una prospettiva che tratta di eguaglianza, comporta un incontro di punti di vista differenti: è una questione filosofica, ma anche giuridica. È una questione storica, ma anche politica. È anche una questione sociologica.

Il libro tratta della questione omosessuale (e più in generale delle questioni di genere e di orientamento sessuale) in modo originale, perché coniuga l’aspetto giuridico (con riferimenti normativi e giurisprudenziali) agli aspetti storico-culturali e socio-politici, attraverso esempi concreti e confronti internazionali.

Un testo piacevole da leggere, perché scritto bene. Non appesantito dai riferimenti legislativi né tantomeno da un linguaggio eccessivamente specialistico. Un libro che tratta di un argomento importante e attuale, con serietà, ma con un linguaggio accessibile anche ad un pubblico di “non addetti ai lavori”.  Una risorsa anche per i politici, che avrebbero bisogno di “farsi un’idea” più vicina alla realtà dell’argomento, visto che spesso parlano a sproposito e senza alcuna base scientifica (ma nemmeno con un minimo sindacale di buon senso). Ma veniamo alla sostanza del libro.

Nei capitoli dedicati agli aspetti più storico-culturali,  e sociali, gli autori citano uno dei pochi studi sociologici sull’omosessualità (cfr. Omosessuali moderni, Barbagli e Colombo, 2007) per descrivere uno scenario in trasformazione. Ciò che mi pare importante osservare è l’aspetto “mutevole” e quindi non “immutabile” della sessualità. Malgrado ciò è necessario in un certo senso definire se l’orientamento sessuale è o no un dato di fatto, per evitare che si facciano avanti quelle posizioni che gli autori definiscono “volontaristiche” ossia che vedono l’orientamento sessuale come il risultato di una scelta, dalla quale è possibile tornare indietro (con il rischio delle teorie riparative à la Nicolosi). Dal punto di vista sociologico appare dunque interessante il modo in cui gli autori affrontano questo aspetto, non privo di ambiguità, lasciando una porta aperta al dibattito, anche perché una risposta attualmente non c’è, o per lo meno non ce ne è una che metta d’accordo tutti, anche se prevale la visione dell’OMS che definisce l’orientamento sessuale come una variante naturale della personalità. 

Gli autori evidenziano allora un altro aspetto che reputo molto importante: la questione della visibilità (coming out) che comporta non solo la comunicazione all’esterno della propria condizione, ma anche un processo di adattamento e di apprendimento rispetto alla propria situazione: un momento di presa di coscienza di sé, e dunque un processo che attiene alla costruzione della propria identità e personalità.

I riferimenti che gli autori propongono (per lo più interpretazioni di sentenze, articoli, leggi) mettono in luce come i giudici abbiano nel tempo mutato la loro idea, proponendo interpretazioni differenti in base al momento storico, ma evidenziando come, sia nei regimi più “tolleranti” tanto quanto in quelli più “repressivi” esistano forme striscianti, tacite, di discriminazione.

L’analisi che viene proposta dagli autori è efficace, precisa e convincente perché mette in evidenza l’intreccio che c’è tra riconoscimento da parte della società, tutela dello Stato e presa di coscienza della propria condizione. In poche parole, gli autori evidenziano come gli interventi legislativi non possano essere limitati alla tutela delle persone omosessuali dagli atti di violenza e di discriminazione diretta (per esempio, il fatto che siano riconosciute aggravanti per reati comuni che hanno come giustificazione primaria il fatto che la vittima sia omosessuale, piuttosto che transessuale e così via). Ma, come sia importante anche la tutela delle discriminazioni e della violenza indiretta e tacita: la norma sociale del puoi fare ciò che vuoi, basta che non lo manifesti in pubblico, è una palese violazione della libertà individuale, della libertà di esprimersi, della libertà di essere ciò che si è. È in sostanza una terribile violazione dei diritti umani. Una nazione democratica, come è (dovrebbe essere) l’Italia non può (come spiega anche Rodotà nella prefazione) ignorare questa classe di persone, questo insieme sì minoritario, ma comunque titolare di diritti. Non è sufficiente che lo Stato intervenga quando si manifesta un reato (cfr. caso Shepard), per esempio quando un individuo è soggetto a violenza fisica per il suo essere omosessuale, ma deve fare in modo che alle persone omosessuali venga permesso di vivere la propria vita esattamente come accade agli altri individui con orientamento sessuale “eterosessuale”.

Gli interventi ad hoc, come le azioni positive (utilizzate anche per le donne) non servono per creare “norme per gli omosessuali” e dunque una sorta di ombrello che li possa favorire sempre e comunque, ma delle iniziative capaci di mettere le persone omosessuali (ma anche transessuali) nella condizione di godere delle stesse opportunità degli altri. La metafora che mi viene in mente è quella dello sgabello: gli individui eterosessuali, hanno delle garanzie e delle opportunità, gli individui omosessuali hanno degli svantaggi oggettivi che possono impedire loro di godere delle stesse opportunità degli altri. Se l’obiettivo è toccare il soffitto, gli eterosessuali stanno con i piedi sopra uno sgabello (i diritti) e possono toccare il soffito agilmente; gli omosessuali sono a terra, sul pavimento (a volte anche sdraiati e ben schiacciati), quindi non riusciranno mai a toccare quel soffitto.  Le iniziative che servono a tutelare questa minoranza, sia nelle manifestazioni esplicite che in quelle implicite, hanno il ruolo di sostegno: sono uno sgabello, su cui gli omosessuali possono stare al fine di essere al pari degli altri individui eterosessuali, di concorrere in modo paritario al raggiungimento dei propri obiettivi, per esempio toccare quel soffitto. Se gli sgabelli ci sono per tutti, da quella condizione base eguale, poi saranno le capacità dei singoli a permettere o no, di raggiungere l’obiettivo, ma se ci sono impedimenti che non dipendono il soggetto, ma sono causati dall’esterno con l’esplicito (o implicito) obiettivo di penalizzare e ostacolare questi individui, allora lo Stato ha il dovere di intervenire. Inoltre come osservano gli autori, la nostra Costituzione indica dei principi generali importanti, che nei fatti vengono disattesi o aggirati.

Il libro affronta il rapporto tra giurisprudenza (nazionale e internazionale) e condizione omosessuale, attraverso esempi concreti e casi storici. Tratta inoltre di questioni molto attuali quali il matrimonio tra persone dello stesso sesso, adozione e omogenitorialità. Questioni importanti e su cui si ragiona poco, specialmente per la reticenza e l’omertà che contraddistingue anche il mondo accademico (gli stessi Barbagli e Colombo, lo mettono in evidenza).

Il libro è secondo me un’opportunità per avvicinarsi ad un tema delicato, e poco trattato. Un linguaggio comprensibile, ma non semplicistico, riferimenti importanti a norme nazionali e internazionali, analisi di casi concreti e di sentenze, una contestualizzazione storica e sociale precisa e un’analisi critica efficace. Un libro che consiglio di leggere!

Fig.1. La teoria dello sgabello! 

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SCHEDA LIBRO
Gabriele Strazio e Matteo M. Winkler,
L’abominevole diritto. Gay e Lesbiche, Giudici e Legislatori
pp: 320
Il Saggiatore,
costo: 17,5 euro (variabile)