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American Horror Story – Asylum

Questo post è dedicato a una serie televisiva che ho visto da poco: American Horror Story – Asylum – se non avete ancora guardato la serie non leggete oltre, altrimenti vi rovinate la sorpresa.

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Il nome della seconda stagione della serie ideata e diretta da Ryan Murphy e Brad Falchuk rimanda ad un opera molto importante nell’ambito delle scienze sociali, Asylum, per l’appunto, scritto da Edwing Goffman nel 1961.

L’opera di Goffman è una pietra miliare della sociologia contemporanea. Il sociologo canadese ha offerto importanti contributi alla teoria sociale, specie in ambito dell’interazionismo simbolico e della fenomenologia. Il libro Asylum  rappresenta qualche cosa di più di un testo sociologico. Come ha scritto Alessandro Dal Lago, in una prefazione:  “ci sono libri che trascendono il proprio ambito disciplinare e contrassegnano una tendenza, se non un’epoca, della cultura” e questo è il caso di Asylum. Il titolo di questo secondo capitolo della serie American Horror Story, attinge dunque da ciò che l’opera di Goffman ha prodotto nella cultura generale.

La narrazione si svolge su più piani temporali, anche intrecciati tra loro: passato, presente e futuro. La dimensione della malattia consente di dare una rappresentazione della realtà alterata, fuori dal tempo se vogliamo. Si uniscono poi elementi esoterici e mistici: le vicende dei malati psichiatrici si intrecciano a storie d’alieni, di diavoli e di visioni. Il tutto, ovviamente, ridotto a pura manifestazione della pazzia del soggetto. La pazzia, la reazione della società a tale deviazione, le istituzioni totali di cui parla Goffman, sono rappresentate dal carcere e dal manicomio. In questo telefilm, il manicomio è gestito, come usava un tempo, da suore e religiosi. Così, alla scienza si affianca la fede, alla terapia di una psicosi un esorcismo (che finisce anche male).

Il cast è d’eccezione. Gli attori sono per lo più della prima serie di American Horror Story, che era dedicato alla “disgregazione sociale” della famiglia: tradimenti, fantasmi (quelli della propria coscienza) e illusioni (dei vivi e dei morti). I personaggi principali sono  Suor Jude, (Jessica Lange), la rigida direttrice del manicomio, che dopo una vita dissoluta abbraccia la fede come percorso di redenzione e “punizione”. american-horror-story-asylum-jessica-lange Suor Mary Eunice, (Lily Rabe), l’innocenza e la purezza corrotta dal demonio: una trasposizione perfetta delle nostre più profonde oscurità. Monsignor Timothy Howard, interpretato da Joseph Fiennes, è la figura della degenerazione della fede: mette da parte la carità per il suo personale tornaconto, e ancor più grave,  mente a se stesso: si dice che il male fatto è in virtù di un bene superiore, quante volte capita nella realtà? La sua fine è eclatante.

Al gruppo di religiosi, che rappresenta in qualche modo la “degenerazione della carità“, si contrappone quello dei medici, gli scienziati.

C’è il Dr. Arthur Arden, interpretato da James Cromwell, un sadico con manie di onnipotenza. La storia lo smaschera, è un ex-ufficiale delle SS, il monsignore lo difende e lo copre. Le scene che lo interessano sono tra le più cruente e dure: gli esperimenti umani che svolge sono aberranti. Il suo personaggio è anche quello protagonista di un atto di dissacrazione terribile: la scena lo ritrae mentre “trucca” la statua della Madanonna e la offende gridando, per poi distruggerla. Fede o non fede, la scena colpisce. La scena più terribile, comunque, coinvolge una delle pazienti, che viene catturata dal dottore. C’è un tentativo di stupro, quindi un ulteriore elemento di “disumanizzazione” a cui segue una mutilazione delle gambe (affinché non fugga). L’esperimento folle consiste nell’iniettare il batterio della tubercolosi per creare una sorta di immunità e alterazione genetica: il corpo della povera malcapitata si deforma, e acquista le sembianze di un mostro. La sua storia è forse la più tragica. L’alter-ego del Dott. Arden è il progressista e innovatore, Dr. Oliver Thredson, interpretato da Zachary Quinto. E’ la rappresentazione perfetta dell’ambiguità e della depravazione umana: essere altro da sé, a tal punto da essere salvatore e carnefice, sadico e spietato, ingannatore e pianificatore, un serial killer psicopatico che ha coscienza di sé e agisce consapevolmente nel male.

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Poi c’è Lana Winters, interpretata da Sarah Paulson, la giornalista in cerca di fama, lesbica che (così come andava di moda all’epoca) subisce la punizione da parte di Suor Jude e viene internata, per subire un trattamento correttivo: l’elettroshock e una cura repressiva per la sua “perversione sessuale“. Si vedrà che il protagonista è alla fine lei, da lei tutto inizia e con lei tutto finisce. La sua vicenda si intreccia con le storie di tutti gli altri personaggi e in particolar modo con Thredson e Suor Jude. Infine, ci sono Kit Walker, interpretato da Evan Peters, l’innocente che viene accusato dei crimini che non ha commesso, legato al futuro e all’inspiegabile. La sua storia personale si intreccia con la narrazione della vita aliena. La sua figura è quella che, tra le altre, subisce le maggiori angherie: condannato per qualche cosa che non ha commesso, è indotto da medici e religiosi a credersi colpevole.

La crudeltà umana spaventa più dell’arrivo del diavolo e degli alieni. Le atrocità che vengono commesse da alcuni dei personaggi è sconvolgente:  ex nazisti che proseguono con i loro piani abominevoli di sperimentazione umana su persone, appunto, abbandonate, considerate “non umane” e dunque “non meritevoli di rispetto” in virtù proprio della loro malattia psichica. Lo dice chiaramente il personaggio: “chi li piangerà?” e “la loro vita è inutile, mentre ciò che faccio può aiutare gli altri” ossia i sani. Nella follia lucida di questo personaggio, il dott. Arden, si legge l’esagerazione, la deriva assolutista della scienza: sostituirsi a Dio, trovare la via dell’eternità. Poi, i piani falliscono, cadono i castelli in aria e ciò che resta è disperazione.

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L’istituzione totale rende pazzi: puoi essere sano, ma la routine, il ripetersi incessante delle cose, lo scandire sempre identico del tempo e delle cose da fare, conducono alla pazzia e il motivetto che accompagna in questo percorso di disumanizzazione è una musichetta allegra, Dominique”, un successo degli anni Sessanta di una suora belga (Suor Sorriso). I malati sono costretti ad ascoltare questo motivetto che parla dell’opera buona di San Domenico e della sua fede pura e forte. Un’ideale di perfezione a cui tendere, ma che è irrealizzabile e rende tutto ancora più frustrante e alienante.

Le storie personali dei personaggi si intrecciano e si sovrappongono: i buoni diventano cattivi e viceversa. Chi sembrava cattivo in realtà era buono, chi era un salvatore era in realtà un carnefice. Ci sono intrecci così articolati che lo spettatore resta confuso: l’effetto è davvero unico. l risultato di questo lavoro è un mix perfetto di ansie e angosce, di aspettative e delusioni, di confronto con ciò che realmente è “orrore”. Non è la rappresentazione del soprannaturale che colpisce, non è questo l’aspetto realmente horror, ma le nefandezze umane, gli orrori di cui gli esseri umani sono capaci e colpevoli. E, soprattutto, non è il malato, lo psicopatico, il mostro, ma chi gli sta attorno: colui che doveva essere sano, è in realtà malato, colui che è insano è in realtà innocente. In questo caso è la figura di Pepper ad affermarlo: “sono un mostro” dice e nessuno ha avuto dubbi sulla sua colpevolezza, un mostro nell’aspetto fisico doveva esserlo anche nel profondo dell’anima.

Una serie davvero bene fatta, merito di una sceneggiatura perfetta, di musiche azzeccate, di una narrazione coinvolgente e di un cast di attori molto bravi. Ma il tema, è questo che rapisce, e la sua perfetta rappresentazione.